Entro in un bar in riva al mare. Il posto è meraviglioso come l’Italia sa essere. Semplice. Sofisticato. Popolare. Esclusivo. Di questa contrapposizione siamo. Siamo stati. Ordino un caffè. Ordino un caffè con sorriso. Un dito d’acqua scende nel vetro del bicchiere da osteria, la forma classica dei bicchieri da locale aperto pubblico. Il caffè scende dalla macchina e si deposita nella tazzina che arriva in un istante sul banco d’acciaio con sorriso. Poco, pochissimo zucchero di canna è il rito è andato. Magia da manuale. Se non fosse che ad alterare questo gioco c’è del residuo sul fondo. L’esatto inverso della ciliegina sulla torta. Polvere di fondo da caffè che non scorre tra palato e lingua. Granuli infinitesimali impediscono alla densità della crema di comporsi in un dipinto macchiaiolo sull’orlo della tazzina raccontando personalissimi panorami interiori che sono lo specchio della realtà esterna. Ecco cosa capita in questo paese bellissimo. La disattenzione, l’incuria dei cicli periodici della manutenzione, inficiano un’intero panorama. Due. Tre. Un mondo intero. Guardo la tazza. È ceramica italiana. Bella fattura. Mi guardo intorno: mare, sole, spiaggia, lumeggiature pittoriche di fine o inizio secolo, sorpresa e tutto il resto. Guardo nella tazza. La nota stonata. Il sassolino nella scarpa.

Da ragazzi, alla mia generazione (ma suppongo anche a quelli che sono arrivati dopo), sui banchi di scuola insegnavano i buoni sentimenti, la responsabilità, i valori, la fede, la compassione, la dignità della persona, la comprensione, i diritti e i doveri, il risparmio delle risorse, la solidarietà per il terzo mondo, l’importanza dei sistemi naturali e gli equilibri dell’ecosistema erano temi consueti.

Più che altro, col senno di poi oggi direi che facevano prediche, “predicavano”.

Ci spiegavano che non c’è alternativa a un sistema di valori basato sul rispetto delle regole e che la democrazia, come la cultura, sono strumenti indispensabili e consolidati del vivere civile. Allo stesso tempo però ci terrorizzavano, a me e a quelli che come me prendevano per buone tutte le prediche degli adulti (non foss’altro perché erano adulti). Lo facevano con la retorica dei buoni sentimenti e la dannazione conseguente le cattive azioni. Un agire che si rifletteva nelle categorie religiose del pentimento e della confessione: la domenica davanti al prete c’era la fila di ragazzini e ragazzine pronti a confessare improbabili e risibili peccati, la cui consapevolezza d’essere in torto era utile solo ad alimentare un inutile sentimento di colpa, una vergogna da cui lavarsi al più presto, in un atteggiamento di castrazione emotiva che radicava lentamente nei cuori di una generazione intera. Hai peccato: sei colpevole. Colpevole di essere come sei. Cosa c’è di più terribile e di più diseducativo per un bambino?!

Già, perché se da un lato prendevamo per buone tutte le prassi presentate come necessarie per un sano vivere civile, dall’altro, poco più tardi, al liceo, con lo studio della filosofia e dell’arte, quelle stesse categorie le avremmo dovute rimettere in discussione. Un normale processo di crescita che passa attraverso la negazione. A quel tempo sembrava improbabile e blasfemo considerare un “diverso da te” come un pericolo, come qualcosa da cui guardarsi. Allo stesso tempo, in palese contraddizione con questo assunto, il nostro sistema di valori era stato proposto come l’unico possibile. Sì, l’unico sulla faccia del pianeta. Inconfutabile. Dogmatico. Salvo poi scontarsi con una realtà ben diversa solo poco tempo dopo. Erano i quadri a tinte pastello che venivano disegnati in quegli anni lattiginosi, foschi, fatti di rivoluzioni in nuce e densi di strascichi eversivi.

Ci raccontavano, all’epoca, che studiare sarebbe stata la condizione necessaria per emanciparsi, per una buona crescita personale e spirituale. Che vale il merito e che la costanza premia. Che per trovare un lavoro, formare una famiglia, costruire un futuro, sarebbe stato sufficiente impegnarsi con determinazione e volontà. Quello era l’ordine delle cose: altruismo, rispetto per il prossimo, convivenza civile. Ovvero un sistema basato sui valori.

Arrivò il giorno in cui quella generazione terminò di studiare, quantomeno formalmente.

Il giorno in cui tutti noi saremmo stati selezionati secondo le capacità acquisite. Quelle capacità messe a frutto da una formazione che aveva tenuto conto delle inclinazioni personali e del percorso di studi. Si trattava di una fatica intrapresa in nome di una legittima aspettativa: trovare un degno impiego nella società. Un ruolo confacente alle aspirazioni.

Quando quel giorno arrivò, iniziarono a raccontarci un’altra storia: lavora, impegnati adesso, lavora anche a titolo gratuito, fallo per dimostrare quanto vali, cogli la tua occasione, sii l’autore della sceneggiatura della tua vita.

In altre parole: sfruttamento.

A quella generazione, per capire che quella era una truffa, sono stati necessari altri anni. Erano quelli utili per età biologica ed energie a creare una famiglia, a costruire un nido. Aspettammo con pazienza, con la diligenza cui ci avevano cresciuti, sicuri che prima o poi sarebbe arrivato il nostro momento.

Intanto il tempo passava e dietro la cattedra, a dispensare ricette chissà poi perché, c’erano sempre gli stessi: quella generazione precedente occupava ancora tutti i ruoli possibili, spesso in un sovraccarico esorbitante di attività parallele, ma tant’è. Era la stessa gente che ci aveva raccomandato di studiare prima, per assicurarci un futuro poi. Gli stessi che, dopo aver sbandierato per anni il valore dello studio, tornavano a spiegarci che sarebbe stato indispensabile dimostrare sul campo il nostro valore, a costo d’essere sfruttati.

Ci ritrovammo molto presto a combattere una guerra tra poveri. Già troppo adulti per ricominciare daccapo, già troppo adulti per tentare la strada di un lavoro diverso da quello per cui eravamo formati, già con troppa esperienza e troppi titoli di studio per ricollocarci in un sistema non premiante.

Senza figli, non per caso ma per scelta responsabile. Oltre i trenta, con lavori precari, part-time quando andava bene e nessuna prospettiva di stabilità. Non assunti in un mondo in cui parlare di diritti negati avrebbe significato navigare a vista in un mare in burrasca.

Sì, proprio così: già oltre i 30. Ancora entro i 50.

Donne. Uomini. Precari. Insoddisfatti professionalmente. Per lo più di cultura medio alta. Spesso gente che aveva studiato. Per lo più single, con mille interessi da coltivare e una famiglia da rincorrere. Qualcuno con un figlio e senza partner, qualcun altro senza partner e basta. Chi con un divorzio prematuro già alle spalle, segnato su quel curriculum sentimentale che ognuno di noi porta scritto addosso, nelle pieghe di un sorriso venato da una sfumatura vitrea. Chi con uno o più amori naufragati e basta.

Un’intera generazione cui era stato rubato quasi tutto. Figli senza raccomandazioni. Figli ai quali era stato raccontato un sistema di valori che nel frattempo sarebbe crollato miseramente. Oppure che si era semplicemente dimostrato essere un bluff, cucito ad arte dai visionari ingenui o da patetici opportunisti delle generazioni precedenti.

La mia è una generazione di individui che non hanno raggiunto, se non troppo tardi, quella stabilità economica che basterebbe appena per mettere in piedi una famiglia, condannarsi a un mutuo vita natural durante, sperare in una casa di proprietà come fosse il sogno di una vita. Già, avere una casa: l’unico obiettivo plausibile davanti allo scatafascio delle promesse non mantenute. Case tutte da costruire ovviamente. Da costruire a spese di quella stessa generazione ancora una volta, sottraendo territorio e alimentando nuova speculazione. Giovani invecchiati nel legame coi contratti a progetto, tra i piccoli ricatti della politica, una politica dettata solo dalle generazioni precedenti. Gente avvezza a una stabilità derisa, soppressa, nella continua speranza di essere sorpresa e di sorprendersi, inevasa. Gente tenuta imbrigliata dal precariato, dai costi proibitivi della vita, dall’immobilità di uno stato che gestisce e guida una società che galoppa dentro una rivoluzione continuamente annunciata e mai risolta, negata proprio dal sistema dei “bilanci” e delle “scelte strategiche”, dai fenomeni di macroeconomia guidati da una politica addestrata a mestiere.

Quello della mia generazione è il racconto amaro di un mondo che si ribella a se stesso. È l’immagine di una quotidianità che rappresenta un universo diviso in quartieri, ghetti, confraternite, consorzi, tifoserie, che riduce tutto a una partita continua tra “buoni” e “cattivi”. Il risultato è una generazione esplosa, invecchiata senza saperlo, ancora alla ricerca di un sogno da rincorrere e tremendamente affranta dalle necessità di una sopravvivenza sopraffatta dalla burocrazia e dall’avidità delle generazioni precedenti, che svendono i gioielli di famiglia e con quelli il futuro dei loro figli al peggior offerente.

Bambini incarcerati in corpi da adulti.

In una parola: farfalle.

 

Il caffè finisce e finisce il tempo del caffè. La ragazza dalle belle gambe attraversa veloce il patio con la schiena leggermente ricurva e un sorriso stampato da mondina. Mi piace l’idea di recuperare un elemento di comunicazione che si va perdendo. Si sa, sono per la tutela dei beni culturali in senso lato. Metafora e analogia. Si tratta di questo.

L’analogia consente di accostare due immagini (situazioni, cose) apparentemente diverse e raccontarne la somiglianza.

La metafora trasferisce un significato da un concetto a un altro.

Sono figure della retorica, processi linguistici espressivi che permettono di parlare di qualcosa raccontando d’altro.

Un po’ come se volessi occuparmi dell’incidenza dei fitofarmaci nelle risaie per trattare delle conseguenze dell’azione politica sulla società civile.

 

Inchinatevi senza naufragare.

Annuntio vobis gaudium magnum!

 

IO TI BENEDICO,

mio amor celeste, ma tu

Tu

Non ti addormentare.

“Il sorriso di Emilia”, di Federico Caramadre Ronconi; Hermes Edizioni
www.ilsorrisodiemilia.it

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