Un ristorantino. Entri. Muri di tufo. Battiscopa di vecchi mattoni. Tavoli di cotto, ceramica, pietra, ferro. Qualche piatto alle pareti, qualche piccolo dipinto, scorci del luogo.

Ti accolgono con un cordiale buonasera, come in quasi tutti i ristoranti del resto, ma senti già che il tono non è quello del posto. L’ambiente è piccolo, senza finestre, ma non te ne accorgi neanche, luce studiata che pende da un soffitto di legno in diversi punti. Gradevole. Merito di chi ha studiato la ristrutturazione o del proprietario? Non si sa.

Ti siedi. Sottopiatti decorati a mano. Ti guardi intorno: c’è un piano. Chissà se qualcuno lo suona mai, quel piano lì. Chiedi cosa c’è da mangiare. Il menù è scritto su di una lavagna, bene in vista, sul muro, al centro dell’unica sala. Te lo leggono, ed ecco che passi dal lardo di colonnata a una quiche di pere con cioccolato fuso con estrema nonchalance. Un po’ troppo per queste parti. Tanto che ti chiedi se ci vengono, quelli di qui. Non perché non siano dei buongustai, tutt’altro. Insomma, forse è un po’ troppo quando ti senti dire che in quella concolina c’è sale dell’atlantico, tutto sommato ci va benissimo anche quello del mediterraneo, sempre cloruro di sodio è. Magari la questione riguarda se sia sale iodato o meno, ma dopotutto non mi incuriosisce poi un granché. Ci sta bene, questo sì, ci sta bene qui un posto così, un posto dove con un po’ di cerimonia ti fanno mangiare di fantasia, tentano di spiegarti gli accostamenti, rendono nobile la cucina della nonna, apertamente, dichiaratamente.

In sottofondo jazz, Louis Armstrong, il tappeto ideale. La carta dei vini per cortesia. Ti viene spontaneo dirlo. Qui si può. Anche se quello che ti arriva non è una grossa scelta, ma è sufficiente.

Qualità/prezzo è domanda di rito, qui è accettabile. Se fosse una vera enoteca quelli sarebbero prezzi da evangelizzazione del territorio. Se fosse un ristorante come ce ne sono tanti qui, diresti che per quello che paghi non hai mangiato niente. Ne risulta un rapporto equilibrato, forse forzato un po’ nella direzione del merletto, dell’accostamento che pare sofisticato, perché te lo sanno raccontare. Io pagherei solo il racconto e la cerimonia con quei prezzi lì. La loro rappresentazione imbandita. Ma si sa, sono uno di quelli che pensano che il superfluo sia assolutamente necessario, e che per questo debba essere ben pagato, ma questa, è un’altra storia.

Ci porterei una donna in un posto così, oppure amici cui tengo, o una cena di lavoro. Insomma, mi ci porterei una di quelle situazioni in cui non ho proprio voglia di sentire la mamma che urla al figlioletto di non girare per i tavoli perché la pizza si raffredda. Ci sarà tempo anche per questo. Magari un’altra volta.

Tratto da

RANDOM IN DE VULGARIS ELOQUENTIA

racconti

© Federico Caramadre 1994 – © Hermes Studi d’Arte Associati 1999 – “Racconti Random”

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