Ci si può rialzare dopo una frattura al femore a novantacinque anni? Il sistema Italia assicura la giusta cura a tutte le età, oppure di fronte alla vecchiaia dobbiamo considerare la vita come un’eventualità cui si può soprassedere?

Ci vuole rispetto per la vita. Oppure ci vuole culo. Tutto qui.

Fossi un romantico direi che me l’ha insegnato un gatto. Non è così. Ma mi piace pensarlo. Quel gatto si chiamava Pippo.

 

 

Si può amare un gatto?! Sì, nella misura in cui il sentimento non conosce barriere, né di genere, né di specie. E l’essere umano non è l’unico cui sia stato concesso il privilegio di provare sentimento. Tutt’altro. Coltivare un percorso emotivo di empatia con gli altri esseri viventi è il primo passo per sperare in una società meno vorace. In tutti i sensi.

Pippo. Amore piccolo, quante volte ho pronunciato il tuo nome.

Il tuo corpo profumava di pane alla vaniglia. La tua voglia di andare a caccia di farfalle.

Quante volte abbiamo dormito insieme, amore piccolo, una volta mi hai messo una zampa tra le dita, con quei polpastrelli morbidi e bruni, e così sei rimasto tutta la notte, la tua zampa nella mia mano.

Mi hai insegnato tante cose, amore piccolo. Che bisogna aver rispetto della differenza, per esempio. Ti ricordi quella volta che c’era mezzo metro di neve e tu hai provato a uscire per tre giorni di fila?! Il quarto ti sei fatto coraggio, hai iniziato a saltarci dentro, il gelo sulle zampe, ma dovevi andare, la tua natura ti chiamava. Ti ho chiamato io, perché rispondevi sempre, ti sei girato, mi hai guardato negli occhi e mi hai detto devo andare, era così chiaro. Sì, perché tu parlavi una e mille lingue. Ogni diverso tono del tuo miagolio significava qualcosa: “apri la porta”, “sono qui”, “ho fame”, “eccoti è da tanto che aspettavo dov’eri finito?”, “Andiamo”, “finalmente!”, “No”, “sì”, “ho dolore”, “ho paura”, “mi metto qui”, “lasciami stare”, “dammi un bacio”, “fammi una carezza”, “voglio salire sulle tue gambe”… Ce ne sono mille altre, chi convive con un gatto lo sa.

Anche se i gatti non sono tutti uguali, alcuni sono meno comunicativi di altri, tu li battevi tutti, tu, tu parlavi.

Il nostro rapporto è iniziato perché l’hai deciso tu. Tu mi hai scelto tra tanti, in un giardino, mentre facevamo le prove di uno spettacolo, d’estate, mi sei salito sulle gambe, d’improvviso, anche se c’erano altre persone e altri mici tu hai deciso di accoccolarti sulle mie ginocchia, io ti facevo scendere delicatamente sull’erba ma tu niente, tu tornavi su, e non c’era modo di convincerti del contrario, neanche provando a farti fare coccole e carezze da qualcun altro lì vicino.

Ho sempre avuto rispetto della tua natura, siamo diversi, me l’hai insegnato tu. Eppure ci siamo voluti un mondo di affetto, di coccole reciproche, di tempo passato insieme, a volte anche solo a guardare un tramonto fuori della finestra, a sonnecchiare vicino.

Non ce ne saranno altri come te, amore piccolo. Ognuno di noi è unico, e vale per questo.

A dirla così, “amore piccolo”, ti si potrebbe immaginare minuto, invece ogni volta che qualcuno ti vedeva non poteva fare a meno di dire “che bel gattone”, già, perché eri bello, possente, vigoroso, giusto.

Sei sempre stato libero di entrare e uscire a tuo piacimento. Del resto, con un gatto non potrebbe essere diversamente, avendo un giardino. Ma la sera aspettavi sempre il mio rientro, a qualunque ora, miagolavi con un tono proporzionale ai tempi della tua attesa, così capivo se fosse stata più o meno sopportabile, sì, era chiaro, poi mi venivi dietro passo passo finché non entravamo in una casa, o nell’altra, o dall’una all’altra.

Sono talmente abituato che mi viene di chiamarti anche se non ci sei, amore piccolo.

 

Mi torna in mente il nonno, come non potrebbe, il nonno di sempre, nonno lontano che chiamavamo “nonnone”, grande nonno, come fossimo una tribù degli indiani d’America, nonno commerciante su una sedia a rotelle da che avevo memoria, su una sedia a rotelle da sempre, per sempre.

Nonno viveva in paese, al centro, negozio a piano terra e casa al piano primo. Un marchingegno fatto su misura per “calare” la mattina e “salire” la sera. Ti eri inventato l’ascensore nonno. Ancora prima delle carrucole elettriche.

Lo ricordo chiamare i suoi gatti “iacce”, gli “iattareglie”, gattini che gli si facevano sotto, e lui che si levava il cibo di bocca per sfamarli. È così nonno, ora capisco il tuo amore per quelle bestiole cui ero troppo piccolo per dare un nome, ma che adesso mi tornano alla mente più chiare che mai. Sono lì, che ti girano intorno alla carrozzina incurvando la schiena e sfregandosi contro le ruote mentre tu prepari per loro il migliore dei bocconi, quello che togli dalla tua bocca.

Adesso capisco che certe inclinazioni ce le abbiamo nel sangue. Anche a questo posso attribuire il concetto di “famiglia”.

Allora non potevo capire perché un uomo come te, che non riusciva neppure a prenderli, si desse tanta pena per quei gattini. Erano loro che ti seguivano passo passo, nella pausa di chiusura, quel tempo del sole cocente in cui facevi abbassare la serranda ma rimanevi in negozio, o per il ritiro in casa la sera.

Erano loro che ti salivano su, bastava un cenno. Così Pippo. Bastava un cenno, più spesso solo uno sguardo di complice intesa reciproca.

Grazie, nonno. Grazie per questo prezioso insegnamento.

 

Il tuo amore per i gatti, per quei micetti cui non arrivavi da sopra la sedia a rotelle ma che ti giravano intorno come un figlio fa con la madre, era una cosa bella. Sì, quell’amore era bellezza allo stato puro. Quel rapporto era una cosa seria. La bellezza è una cosa seria. Ti fa venire le farfalle nello stomaco.

È una delle categorie più futili e, per questo, diversamente importanti.

Si dice per i “diversamente abili” se costretti su una sedia a rotelle. Diversamente. Per non far sentire i disabili diversi qualche parolaio domenicale ha coniato questa terminologia edulcorata, un effetto placebo linguistico. Una stronzata. A parlare di quella bellezza espressa da un adulto sopra una carrozzina viene da prenderli un po’ per il culo: la bellezza assunta a categoria dell’essere disabile come diversamente importante. Bellezza. Se ne parla ovunque, e chiunque si sente in diritto/dovere di giudicare cosa sia bello e cosa no. Eppure la storia dell’arte, che della bellezza è maestra, insegna che certe categorie sono superate, che il bello non è solo percezione sentimentale o empatia percettiva, ma anche e soprattutto un fatto culturale. Allora ecco che la negazione del bello è anche arretratezza, ignoranza, malcostume. Un’ignoranza diffusa che provvede alla recita dei sentimenti urlati in prima serata televisiva, ai banchetti estesi venduti come eventi culturali, alla spinta populista dell’intrattenimento da baraccone mediatico che è il social network, dove le categorie di bello/brutto, giusto/sbagliato, privato/pubblico, sono sovvertite a favore del risultato: l’audience (il contatto – il tasto mi piace).

Bello e brutto infine sono anche categorie dello spirito. Bello è un tramonto. Bello è il sentimento che quel tramonto riesce a suscitare. Ma siamo già agli esercizi di meditazione.

Imparare la bellezza è un mistero continuo, una ricerca nuda.

Per questo i gatti vanno a caccia di farfalle.

 

Piccetto. Pippo piccolo. Pippino. Pippetto. Pippettino.

 

Micio Pippo. Pippino micino.

Mi hai lasciato un graffio sul polpastrello dell’anulare della mano destra, l’anulare, guarda caso, a cavallo tra falangina e falangetta, la tua firma non voluta, un solco, firma effimera, che si ferma giusto al centro del dito, uno spartiacque tra prima e dopo, la tua e la mia storia, il tempo che ci ha legato, che abbiamo vissuto insieme, giorni meravigliosi che mai più torneranno, un segno al centro del dito, dove è più morbido, dove il dito poggia, tocca il resto prima d’ogni altra parte di sé, dove esplora, vede, sente.

Quel segno sta rimarginando, si ricompone e si cuce a vista d’occhio, il tempo inesorabile del distacco tra te e me, che ancora pizzica come le ferite sanno fare. Ti confesso, Pippo, vorrei che questo segno non guarisse mai, che fosse lì per sempre, davanti ai miei occhi e sotto i miei nervi, a ricordarmi di te.

È un segno che mi hai lasciato per qualche giorno, che hai lasciato tuo malgrado, sì, perché non sei stato tu a graffiarmi, ma io a fare un movimento inadeguato contro la tua zampetta. Perdonami Pippo, perdonami. Questo segno guarirà presto e si porterà via il ricordo vivo che adesso ho sulle dita, di te. Guarirà nonostante tutto, nonostante noi.

 

Micio piccolo.

Pippino.

Pippino piccolino.

 

Micetto, micino, micio piccolino.

Piccoletto pippino.

 

Micio fiffo.

Micetto fiffino.

 

Micetto piccolino, micettolo, micettolino.

 

Pippetto.

Pippo.

Pippobello.

Pippettino bellino.

Pippettino piccolino.

 

Le parole hanno un suono e i nomi sono musica. Allora quello è il nostro concerto, al quale non una volta hai mancato di rispondere, tanto che tutti si chiedevano se fossi un gatto o un cane.

“Un gatto che risponde?!”. “Ma è un cane o un gatto?!”.

È uno. È solo Pippo, uno di noi.

 

Un giorno lui me l’ha chiesto. Si pensa spesso che gli animali abbiano più di una modalità di comunicare con gli uomini, tra di loro usano molto i segni, l’aspetto visuale, le posture del corpo. Le orecchie diritte o abbassate, il pelo arruffato, la groppa curva, la coda diritta, il corpo di traverso, solo per citarne alcuni tra i più conosciuti e facilmente interpretabili. Si tratta di un vero linguaggio dei segni, molti dei quali inequivocabili, facilissimi da rintracciare, un glossario ricco di idee per la comunicazione. Se solo ci prendessimo la briga di studiare un po’ quel modo di comunicare lì, avremmo tanta sofferenza in meno sulla coscienza, ma l’uomo è un animale che ancora presume che il valore della sua vita sia diverso da quello degli altri esseri viventi. A torto, un animale la cui specie infesta questo pianeta, ritiene, chissà perché, che la vita degli altri animali valga meno, che possano essere sacrificati al suo capriccio.

 

Dopo che te ne sei andato ho pianto. Non lo facevo da 27 anni. No, niente di psicologico, niente blocchi o quella roba lì. È solo che l’avevo deciso. Alla scomparsa del pilastro mentore della mia famiglia ero troppo piccolo e incredulo di quello che stava accadendo per trovare lacrime che dessero un senso di commiato. Ricordo che pensai che se non c’erano lacrime per quel dolore, non ci sarebbero state per altro. E decisi.

Mantenni questa decisione per ventisette anni. Finché mi sorpresi il volto bagnato da lacrime che fuoriuscivano a fontana quando te ne ne andasti tu, un gatto.

 

Pippo se n’è andato con un’iniezione che non era ancora ora.

Se n’è andato dopo che non c’era più niente da fare. Se n’è andato mentre lo baciavo che non se n’è neppure accorto. E io neanche.

“Il sorriso di Emilia”, di Federico Caramadre Ronconi; Hermes Edizioni
www.ilsorrisodiemilia.it

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