La sbarra biancorossa all’ingresso, manovrata da un metronotte dentro un gabbiotto, chiarisce subito che si entra solo a piedi. L’auto fuori, in un parcheggio di fortuna, dove si può, sul ciglio della strada, di una strada di periferia senza parcheggi, con auto che sfrecciano a tutta velocità da una parte all’altra.
In fondo a un viottolo di finta pietra, lastricato con ciottoli sagomati a stampo su mattoni di cemento, l’ingresso fatiscente del pronto soccorso, odoroso di gasolio e luminoso di neon infreddoliti da brividi di luce intermittente.
Dentro un androne che sembra il magazzino di un vecchio garage sporco, il letto con la donna che cerco, sola, con nessuno intorno e una gamba spezzata dall’età.
Entro diretto seguendo il filo tenue e stridulo del lamento che riconosco e la trovo lì, sola, in balìa di se stessa, che tenta di muoversi, anche se non dovrebbe: non si sa ancora bene cosa sia successo.
Nessuno mi ferma, nessuno mi chiede, nessuno si occupa di lei: lì, scaricata come un pacco da trasporto dalla coppia del 118 che è già ripartita per altri soccorsi. Alla ricerca d’altra gente. Gente. Gemiti, lamenti, urla senza virgole, per un pensiero che va diritto su ossa franate sotto il peso degli anni.
Le fa male una gamba, le metto la mano dietro la schiena, per sorreggerla, poi le alzo la testa con quel che mi rimane libero del braccio, mentre con l’altra mano le immobilizzo gli arti inferiori tenendola agganciata: una vecchia nella culla delle braccia del nipote. Ogni minimo movimento un grido di dolore, ogni nuova posizione un possibile peggioramento se, com’è probabile, si tratta di fratture.
Poi tutto il resto: le radiografie, l’attesa obbligata in un andito sciatto, trascurato, lugubre…
La sentenza, le firme per l’assunzione di responsabilità!
“Non c’è posto, iniziamo a chiamare altri ospedali”, dice un infermiere dietro la scrivania senza guardarmi, consultando il vecchio monitor a tubo catodico di un lento computer acceso. Lo sfarfallare del neon di luce ghiacciata della stanza si confonde con il timbro giallognolo di una lampada da tavolo e riflette il volto dell’infermiere sul monitor grigiastro. È l’immagine riverberata dell’espressione che ho immaginato sul volto del portantino d’autoambulanza.
Non mi dicono come sta, che cos’ha, cosa pensano di fare, no, mi dicono che “per legge” devo firmare se rifiuto il trasferimento. Già! La burocrazia prima di tutto. “L’assunzione di responsabilità”. La legge prima delle spiegazioni, prima del cuore, prima dei sentimenti, prima degli affetti, già! La forma che assorbe la sostanza. L’umanità lasciata appesa al filo di una ragnatela.
“Iniziamo a chiamare altri ospedali, qualcuno risponderà, oppure, se la vuole lasciare qui: ginecologia!”.
Ginecologia… Ecco tutto quello che mi è dato sapere: un incidente, un trauma, telefonate concitate, grida, 118, sofferenza, urla, preoccupazione, chilometri e chilometri nella notte e poi… Ginecologia!
Sì, perché in questo ospedale, già dagli anni ’50, nascevano bambini. Tanti. E tanti ne nascono ancora in tutto il comprensorio di cui l’ospedale è un sicuro punto di riferimento. Il reparto di ostetricia è stato chiuso: li chiamano “tagli di bilancio”. Il prossimo ospedale possibile è a più di 50 km di impossibili strade di provincia.
E allora succede che nel reparto di ginecologia c’è tutto il posto che si vuole, perché non ci sono né puerpere né gestanti qui: per ritrovarle bisognerà arrivare in città, nella grande confusione della capitale.
Così ti arriva netta in testa e subito insieme nel cuore una sensazione: non è che invece di andare avanti, andiamo indietro?!
Un paese che non guarda al futuro, un paese che vede peggiorare senza possibilità di appello i servizi necessari alle persone, servizi utili come un ospedale, in nome dell’economia, dei numeri, dei bilanci, degli indici finanziari, dei calcoli statistici, come se un servizio pubblico fosse un prodotto da sottoporre alle leggi di mercato, della concorrenza, del marketing, spingendo quei servizi sulla strada di una lenta agonia che prelude alla chiusura, ebbene, un paese che antepone i freddi calcoli matematici e finanziari alla vita delle persone, dunque alla sua vita futura, è un paese in declino.
Se un ospedale è un servizio alla collettività, deve essere antieconomico. Altrimenti non è più un servizio ma un “prodotto”, da vendere, come qualunque altro oggetto del mercato globale. Con la differenza che qui si mercanteggia con il dolore delle persone. Sarà forse per questo che in molti “presidi ospedalieri” i geni della finanza, i manager rampanti, hanno già predisposto parcheggi a pagamento, anche più costosi dei già troppo iniqui “parcheggi blu” cittadini. Non significa forse profittare del dolore della gente?!
Offerta speciale: “tre interventi al prezzo di due!”. “Prendi due letti e paghi uno!”. “Dopo la terza ora, la quarta è gratis!”.
Fuori da un ospedale i parcheggi dovrebbero essere rigorosamente gratuiti. A meno che non si voglia speculare sul dolore degli altri. Amen.
Negli anni ’50, qui, nascevano bambini.
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