Prologo

 

 

Casa. Anno del Signore duemiladieci. È sera.

Il telefono cellulare è acceso fino a tardi, per essere rintracciabile.

Suona. Suona la musica che ho scelto, di modo che lo squillo non sia più un secco trillo telefonico, ma una canzone leggera, la melodia di un film.

All’altro capo del telefono c’è mia madre, una donna generosa, come la maggior parte delle madri di famiglia. Una donna che ha speso la propria vita per i figli.

È ansiosa. Mi dice che la sua, di mamma, è caduta. Si tratta di mia nonna. Sono accorsi i vicini, allarmati dalle grida di dolore. È sul letto, qualcuno ha chiamato il pronto soccorso.

“Lasciala lì, non la spostare”, le dico. “Se avesse un trauma rischieresti di peggiorare la situazione”.

Da lontano, tento di capire cosa sia capitato. Niente di più difficile da fare al telefono, soprattutto in momenti febbrili come questo.

“Ho paura che abbia qualcosa di rotto”, mi risponde. Poi passa il telefonino a una signora che è appena arrivata, che è lì da pochi minuti, come ogni sera, per aiutare l’anziana donna, mia nonna, a coricarsi.

“Secondo me va portata in ospedale”, mi dice.

“In ospedale?”, le chiedo.

Sento distinte le urla della nonna: “No, in ospedale no! Lasciatemi qui, lasciatemi qui!”.

“Riusciamo a capire se abbia qualcosa di rotto prima di sottoporla allo stress di un trasporto in ambulanza, in piena notte e a decine di chilometri?”, le dico, tentando di contenere come posso la preoccupazione che mi sta assalendo.

“Adesso chiedo agli infermieri del 118, sentiamo. Ti passo tua madre”. Così dicendo mette il telefono di nuovo tra le mani della padrona di casa, che nel frattempo vede arrivare due uomini del pronto soccorso, nelle loro tute arancio a strisce fluorescenti.

Il telefono rimane acceso, ma mia madre non ha la testa per parlare con me e con gli ausiliari del soccorso contemporaneamente. In sottofondo le grida di mia nonna.

Mi sforzo di farmi sentire. Alzo la voce: “Pronto, pronto, mi senti?”.

Niente da fare, dall’altra parte arrivano discorsi concitati: “Signora la dobbiamo portare via!”.

“Sì, secondo voi ha qualcosa di rotto?”.

“Signora questo lo stabiliscono i medici in ospedale, noi ci limitiamo a constatare che va trasportata…”.

 

“Pronto, mi sentite? Pronto?”. Provo inutilmente a ristabilire un contatto, ma niente.

 

Chiudo la comunicazione e richiamo. Lo squillo del telefono mi farà da Caronte. Un traghetto verso l’inferno. Sì, i telefoni a volte non sono che questo.

 

“Pronto?”, dico.

“Sì, ecco, guarda, dicono che devono portarla via, non so dove”, risponde mia madre.

“All’ospedale più vicino signora”, aggiunge un uomo lì accanto. Deve essere qualcuno dell’autoambulanza, penso. Uno degli uomini del 118, penso.

“Passameli”, le dico, “fammi parlare con loro”.

“Ecco”. Mi passa uno dei due, quello più vicino.

“Buonasera, sono il nipote”. “’Sera”, fa quello.

Replico: “Possiamo capire se sia necessario spostarla? Non vorrei che complicassimo le cose, ha 95 anni”.

“Va bene, adesso vediamo”, mi dice con tono gentile.

Frattanto sento chiaramente nonna urlare: “Lasciatemi qui, voglio stare a casa mia, all’ospedale no! Non voglio andare all’ospedale!”.

Ha una lucidità e una forza che fanno rabbrividire.

“Pronto?”, la voce di un secondo uomo subentra bruscamente alla precedente. Deve aver preso in mano il telefono.

“Sì?”, rispondo.

“Guardi noi siamo obbligati a portarla via. Altrimenti sua madre mi deve firmare il rifiuto all’intervento”, aggiunge con un piglio risoluto e aggressivo.

“Scusi, che significa? Prima di prelevarla non mi sa dire qualcosa di più? Urla, non la sente?! È terrorizzata. Ha novantacinque anni! È sicuro che sia necessario?” rispondo palesemente infastidito dal suo tono affatto conciliante.

 

Dovrebbero fare un corso di buone maniere. Gli dovrebbero insegnare la buona educazione prima di mandarli in giro a caso nelle case della gente TRAUMATIZZATA che soffre di un incidente, penso. Altro che aggiornamenti, autorizzazioni e diplomi. Un corso di psicologia, anzi, di buona creanza. Quello serve! Penso.

Intanto, sotto, le urla si fanno se possibile più pressanti: “No! Non voglio andare da nessuna parte, no, non voglio!”. Le grida esasperate della nonna dipingono la stanza di rosso. Sento il tizio dai modi malati che inizia a discutere con il collega. In sottofondo le voci delle tre donne si mescolano in un confondersi di “stai calma – non voglio – adesso sistemiamo tutto – vedrai che non è niente – questi signori sono qui per aiutarti – voglio rimanere a letto”.

 

“Mi passi mia madre, grazie!” aggiungo vagamente incattivito.

“Sì?”. Finalmente è lei. E con il telefono in mano.

“Che è successo?”, le chiedo.

“Non lo so, si stava alzando da tavola come sempre e si è accasciata improvvisamente da una parte”.

“Ha sbattuto?”.

“Sì. È finita a terra, di lato. È stata una bella botta. Ha battuto anche la testa. Oh, accidenti! Ero lì e non ho potuto fare niente!”, mi spiega preoccupata.

“Non è colpa tua. Poteva capitare a chiunque”. Cerco di rasserenarla. Aggiunge: “Aveva fatto una bella cenetta. Era così contenta. Aveva mangiato tutto, invece…”.

“Ho capito, non ti colpevolizzare, non serve a niente. Potrebbe avere qualcosa di rotto?”, chiedo.

“Ho paura di sì. Da come gridava ho paura di sì. Conosco quel dolore. È lancinante. Ti fa urlare come poco altro”.

 

È una tragedia, penso. No, questa proprio non ci voleva, non adesso, penso. Ma non lo dico: “se è così dobbiamo farla portare in ospedale. Se la lasciassimo a letto e avesse le ossa rotte potrebbe partirle un embolo”.

“Sì, ma non si vuole muovere, non vuole essere toccata, urla”.

“Passamela”, le dico.

 

Mia madre avvicina il telefono cellulare all’orecchio di mia nonna. Sprovvista degli occhiali con amplificatore acustico che è abituata a indossare da anni, nonostante l’età e più di qualche carenza uditiva, mi sente perfettamente.

“Nonna?”.

“Amore!”, risponde con voce squillante, “Sono caduta!”, aggiunge mortificata.

“Lo so, ma non è niente di grave, non ti preoccupare”.

“Mi vogliono portare all’ospedale!”, replica angosciata.

“Sì nonna. Dobbiamo andare a fare un controllo per essere sicuri che tu stia bene”.

“Dici?”, risponde preoccupatissima.

“Sicuro. Vedi quei signori?! Ti prendono e ti portano al pronto soccorso con l’ambulanza. Lasciali fare, così ci togliamo il pensiero, vedrai che la cosa si risolve, ma dobbiamo sapere che è successo, capito?!”, provo a convincerla, poco convinto io stesso.

“Va bene, se lo dici tu mi fido. Di te mi fido amore mio. Faccio quello che dici”.

“Nonna, ci vediamo al pronto soccorso. Parto subito e ci vediamo lì, capito?! Non ti preoccupare…”, dico sforzandomi di assumere il più possibile un tono rassicurante e affettuoso.

“Nonnina adesso andiamo, ‘che se ci chiama altra gente bisogna liberare l’ambulanza. E poi basta, questa telefonata vi costa troppo”.

Sento distintamente la voce dell’infermiere non troppo comprensivo e la chiamata cade. Ha chiuso.

 

La telefonata la pago io, penso, e questo si preoccupa dei miei soldi e non dello stato d’animo di una donna di novantacinque anni, appena traumatizzata.

Provo rabbia, ma non posso fare niente, niente che non abbia già fatto.

Mi guardo, sono in pigiama, in piedi, in piedi sul letto. Guardo a destra, a sinistra. Nero. Nero pieno. Intorno a me una notte silenziosissima e buia. Stavo guardando altro. Ero da un’altra parte. Adesso qui. Mi vesto e in pochi minuti sono in auto, su strada, per nere e tortuose strade di provincia.

 

“Il sorriso di Emilia”, di Federico Caramadre Ronconi; Hermes Edizioni
www.ilsorrisodiemilia.it

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