Sei mesi dopo. Era il 19 settembre 2010.
Eccoci qua. Sono trascorsi circa sei mesi dall’incidente che ha causato a mia nonna la frattura del femore, con l’intervento e tutto il resto. Oggi sono certo di poter dire d’aver fatto tutto quello che era in mio potere per aiutarla. Senza forzare la mano. Senza anteporre i miei diritti a quelli degli altri. No, tutt’altro. Non lasciar correre dinanzi all’inedia. L’assuefazione a certe prassi burocratiche va ricusata. Penso a quei fantocci che sono di là da un vetro, a tutti i livelli, o che trovi nei casi migliori dietro una scrivania. Eccoli lì. Li vedete?! Pronti a spiegare che loro non possono farci niente, che è così che funziona, che in Italia così vanno le cose. Solerti a vietare. Zelanti a negare.
Sì, quante volte l’abbiamo sentito dire?! “In Italia le cose funzionano così”. Una frase cui di solito segue o precede un “purtroppo”. Come se fosse consolatorio. Come se l’ammissione di consapevolezza della melma nella quale è precipitato questo paese possa essere l’assoluzione dalle responsabilità personali. Piccole responsabilità che farebbero invece la differenza, nel pubblico come nel privato.
Tutto parrebbe dipendere sempre “da altri”. O alla peggio “dal sistema”. Una canzone alla quale siamo abituati.
Non c’è peggior malattia che l’assuefazione a un certo stato di cose.
“Festeggeremo i novantasei, nonna!”.
“È tutto merito tuo, amore mio. Aho, novantasei! Io proprio non me lo credevo, novantasei, ma guarda tu, novantasei, ma ti pare?!”.
Ebbene, se avessi dato corda a quel “sistema”, mia nonna sarebbe già morta. Novantasei!
96.
Oggi ne ho la certezza. Sarebbero insorte le solite complicazioni, prima o dopo. A quelle sarebbero seguiti i guai che precedono un rapido e ineluttabile termine della vita. Avrei visto comparire di fronte a me quei personaggi inenarrabili, quelli coi visi dipinti da una tristizza di circostanza, di una tristezza abitata da un copione consumato, pronti a dirmi che “a quell’età non si poteva pretendere di più”, e che il trapasso era inevitabile. Davanti ad argomenti come questi, esternati nella grigia corsia di un ospedale in chiusura, o nell’astanteria di una clinica dove puoi regalare affetto a orario programmato, dove non c’è abbastanza personale per infilare nella bocca di una vecchia una dentiera, che conclusione avremmo dovuto trarre se non il fatidico “era inevitabile”, magari vedendoci stringere la mano da quei medici e da quegli infermieri che almeno ci avevano provato, o che avevano fatto finta di provarci.
No. Ma anche NO.
Non è questa la storia che volevo raccontare.
La storia che ho vissuto è piena di vita, di sei mesi in più trascorsi vicino a mia nonna, una donna di novantasei anni che ha mosso ieri i primi passi da sola dopo essersi rimessa in piedi grazie agli sforzi tutti privati di quelli che, intorno a lei, hanno continuato a crederci.
Questa è una storia di sorrisi, di battute, di risate. È una storia di quelle che racconti volentieri nonostante un lavoro perso per esserle stato accanto. Un epilogo possibile grazie alle centinaia di chilometri fatti in auto per monitorare costantemente la sua situazione di salute, grazie alla ricerca sistematica delle persone giuste che con il loro aiuto avrebbero potuto giovarle e nonostante i mille piccoli impedimenti quotidiani per ottenere quello che sulla carta ci spetterebbe di diritto. Un risultato che devo alla caparbietà. Nonostante le brutture di un sistema miserabile la vita mi ha regalato ancora le risa sincere di mia nonna, felice di essere ancora qui con noi, a scherzare in salotto, a novantasei anni, più viva che mai.
Se certe rinunce hanno un senso, lo capisci in momenti come quello. A tutte quelle Cassandre che nel corso del tempo mi hanno più volte esortato a desistere, a tutte quelle Chimere che hanno abusato del fraseggio “devi vivere la tua vita” come se questo giustificasse un allontanamento forzoso e opportunista dagli affetti, vorrei rispondere con queste righe. Il sorriso di Ofelia vive della vostra retorica infantile e la condannerà a morire con la mente offuscata dalla mancanza di un miraggio. No. Una vita è tale finché è.
Adesso, dopo aver vissuto un lungo periodo senza allegria, posso dire d’essere contento.
Il sorriso di Ofelia non è che il guado di un fiume d’acqua pesante.
Cara Ofelia, ti osservo, viso al cielo, illuminare di beltà tradita i foschi nembi. Nei tuoi occhi la purezza ingenua dell’animo di un bimbo, ma il tuo cuore è nero e lo sguardo è perso. Il pittore l’ha detto chiaro. È la vista di un’immagine persa dentro te stessa, dentro un animo nuvoloso dove non si intravvede neppure un solo squarcio. Lo squarcio è fuori, se solo volessi vederlo, in quel sole che ti lambisce gli occhi, e con quelli il volto e le acque placide lì attorno. È un lampo che racconta l’assenza, un bagliore di polvere che non illumina i tuoi occhi baganti e non ricuce reazioni all’impronta di un destino che da sola ti sei scelta, magnificando l’arrivo della fine con un sorriso che non sorride ad alcuno.
Si può sorridere dinanzi alla morte? Forse. Sarebbe come dire che si può vivere senza allegria. Ofelia, mia dolce Ofelia.
Ti chiederò perdono, per non averti saputa amare.
Ma ti amerò fino alla fine dei miei giorni.
A letto me ne vò
l’anima mia a Dio la dò
la dò a Dio e a san Giovanni, che il peccato non m’inganni
né di dì, né di notte
fino al punto della morte
né di notte, né di dì
fino al punto di morì!
A capo al letto mio c’è l’angelo di Dio
di qua e di là, la santissima trinità.
Nel nome del padre, del figlio e dello spirito santo.
Così mia nonna. Ogni sera, mentre si avvia verso il suo letto, per un’ultima preghiera.
Amen.
È così che vanno le cose.
In un paese normale si dovrebbe avere fiducia, la confiance per dirla all’inglese. In italiano potremmo usare “confidenza”. In inglese, oltre che “fiducia”, esprime una certa vicinanza con le persone in cui si “confida”. Sì, insomma, si dovrebbe avere la fiducia in tutte quelle persone che lavorano nella sanità: una fiducia piena, senza riserve, una fiducia che implica serenità nelle scelte. Una serenità totale per cui si può pensare di lasciare un proprio caro alle cure di altre persone, nella certezza che queste avranno attenzione di chi ti sta a cuore. Un po’ come se te ne occupassi tu direttamente.
È il massimo delle deleghe possibili: mettere una vita, la propria o dei cari, nelle mani di un altro, di un’altra persona.
Se l’avessi fatto senza riserve mia nonna sarebbe morta.
Va detto.
Non vorrei essere frainteso: sarebbe morta per inedia.
Sarebbe morta in una corsia d’ospedale, o all’interno di un centro di riabilitazione. Sarebbe morta per via della convinzione degli uomini che a novant’anni e oltre la tua vita tu l’abbia già fatta. Chi potrebbe negarlo?!
I vecchi muoiono di abbandono. I vecchi muoiono di noia.
Dunque se un giorno, arrivando in corsia in un’ora di buco rubata al lavoro, al traffico, agli impegni familiari, alla spesa, alle bollette, allo shopping, alla televisione, alle vacanze programmate, alla pulizia, alle compere, alle amicizie, alle relazioni sociali, alle telefonate dei telefonini ovunque, sì, se un giorno, arrivando trafelato nella corsia d’ospedale dove i soccorritori, i medici del pronto soccorso, i portantini, i medici di corsia, i primari, gli infermieri, i direttori di reparto e quelli delle asl avessero stabilito fosse corretto sistemare mia nonna secondo procedure standard, ebbene, se arrivando in quella maledetta corsia con il fiato corto rubato alla vita preimpostata avessi trovato il letto vuoto e un qualcuno caritatevole, forse un’infermiera con un briciolo di umanità residua, si fosse avvicinata per dirmi: “se n’è andata stamattina che non era ancora giorno. Non si dia pena, dormiva, non si è accorta di niente. Abbiamo fatto quello che potevamo, ma aveva un’età”, che avrei mai potuto dire?!
Ecco qui.
Davanti a una frase come questa, che avreste fatto?!
Niente.
“…Aveva un’età!”.
Un concetto inappellabile.
Invece no.
Ho voluto che morisse nel suo di letto, mia nonna, nella sua casa di sempre, con il conforto dei suoi, perché un giorno in più con una carezza è un giorno degno, a qualsiasi età. Quella era la fine dei suoi giorni. La fine che stava per essere scritta. Senza allegria. Con un sorriso che non sorride a niente. Non ci sarebbe stato appello, non ci sarebbero state scuse. Sarebbe morta per inedia, non per vecchiaia. Sì, perché i vecchi muoiono per abbandono, i vecchi.
I vecchi muoionio di noia.
Ho voluto scrivere un altro finale. Ecco cosa mi turba: se non avessi interpretato alcuni segnali, segnali che erano in tutta evidenza il risultato di un meccanismo e non la scelta oculata, consapevole e “partecipe” delle persone, ebbene, se un campanello d’allarme non si fosse accesso nella mia testa, tormentando le mie giornate clonate tutte uguali nella corsa senza fiato tra lavoro, impegni, scadenze, deroghe e tutto il resto, allora quello (e solo quello), sarebbe stato il finale da scrivere.
Se si potesse comprendere fino in fondo cosa significa vedere gli amori cedere il passo al tempo.
Se si potesse comprendere davvero cosa vuol dire amare senza riserve, sapendo che i giorni di quegli amori sono destinati a conclusione.
Cosa sarebbero davanti a tutto questo certe velleità cui siamo chiamati a rispondere. Cosa ne sarebbe della boria, di certe posizioni intransigenti, della presunzione, della cupidigia.
Niente.
Fine predica.
Fine di settembre.
Un incidente in casa, il ricovero in ospedale, l’ipotesi di un intervento chirurgico. Una cosa da raccontare.
La storia, inizia così.
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