Mi dica i prezzi
o mi darà del noioso se le parlerò di diritti
Lo so, non siamo tutti uguali.
Ci sono storie che alcuni di noi si portano dentro. Le stesse che altri non vedranno se non inciampandoci sopra, presi quanto sono dal corrersi addosso. Ho visto più umanità nel pensiero di un gatto che in una festa di raccolta fondi per beneficenza.
Sì, nelle bugie di circostanza di questo tritacarne sociale è d’obbligo simulare ottimismo, ma c’è un prezzo da pagare. È così, si ammala prima l’anima poi il corpo. Poi la carne segue l’intenzione, un po’ come l’acqua registra le vibrazioni della musica.
Allora, nel sorriso di un vecchio cercare la speranza di trovare la strada.
Domani, aspetterò qualcuno con un mazzo chiavi, affinché mi suggerisca quale porta aprire, prima di comprimere i sogni in una fila qualunque, e non sentire neanche un minimo di colpa quando si schiaccia la vita a una zanzara.
Qui, una storia onirica davvero delirante.
L’imperativo categorico degli anni ’90: circolare. Circolare in città su vie di scorrimento obbligate. Anche quando devi andare dall’altra parte dell’incrocio. Circolare. Per arrivarci devi seguire un giro intricato di qualche chilometro di strada in più. Fa niente. Circolare. Circolare fino alla clinica sotto la mia responsabilità. Circolare al di fuori del centro storico. Zona blu vietata a tutti quelli che non vi abitano. Privazione del piacere di godere liberamente dei beni pubblici. I beni comuni prodotti dalla storia: i monumenti, le bellezze d’arte. Prodotti della cultura stratificata e sapere della bellezza. Gioielli conservati nei centri storici, impossibili da raggiungere coi mezzi pubblici. Tantomeno con l’auto privata. Non sapresti dove lasciarla per mancanza di parcheggi. Sceglierò un tavolo d’angolo. Un prezzo speciale del direttore editoriale che porta la gonna.
Vessazioni. Fine millennio. L’alba di una nuova era: quella del controllo digitale, del mondo automatizzato, delle procedure consolidate e delle piramidi gerarchiche. Parcheggio per il tempo di un pranzo. Piccoli esempi di come la nostra generazione abbia navigato a vista attraverso complicazioni congegnate ad arte, in una affabulazione costante che affonda le sue radici nella retorica da bottegai, a vantaggio della sopraffazione di una esistenza sull’altra.
Mi capita tra le mani una foto di Emilia da giovane. Gran sorriso. Un abito di seta e un cappellino con una decorazione da un lato. Una crocca, una veletta forse. Ai lati due donne che non conosco. Donne vestite da donne. Che sono belle quanto femminili, che non vuol dire che una donna non possa o non debba vestire come meglio crede. Sarà, ma in quel bianco e nero c’è tutto il colore di un modo d’essere femminile che mi piace, che mi rappacifica con quel sentimento diffuso per cui è più che legittimo associare donna a bello, senza per questo sentirsi pappagalli.
Le donne più belle sono quelle che incontri in uno sguardo, che scopri in un modo di camminare, che ti sorprendono per come mettono la bocca quando si nascondono dietro un sorriso.
Le donne più belle sono quelle che non t’aspetti, ma che le riconosci subito.
Le donne belle sono quelle che non vedi e che poi ti sorprendi a guardarle, le donne più belle sono un’epifania.
Le donne più belle sono lì per come muovono una mano, come accennano un non so che in cui ti ritrovi e che vorresti riabbracciare.
Le donne più belle sono lì, in un modo di essere che non vuole somigliare agli uomini e che sa sorridere di quello che gli uomini dicono, scrivono, fanno.
Ma rischiano di essere davvero storie in bianco e nero, disegnate da macchine fotogrfiche d’altri tempi e impresse su carta baritata. Oggi quell’immagine sarebbe diversa.
Ci saresti tu, con un sorriso digitalizzato, impapocchiato, tirato su un’espressione levigata artatamente a distendere le rughe d’espressione che a me, invece, piacciono.
Tu hai studiato per fare un lavoro e na fai un altro. Per di più a stento e tra mille ostacoli. Quasi che tu debba ringraziare per fare una cosa che non ti piace. Neanche prendessimo al volo una lotteria con i capelli lunghi. Anche portare i jeans oramai vuol dire appartenere alla retroguardia.
Hai lavorato gratis per tanti anni e non hai pensato a costruire qualcosa di solido per il futuro. No, hai la certezza che non raggiungerai mai una pensione. Più solido di così c’è solo il grasso che si accumula sulle gote e non per questo rende autorevole il venditore di tempo o la sua segretaria. Il venditore di tempo è il compare degli altri due. Le signore eleganti non hanno letto le avanguardie.
Se pensi di comperare una casa dovrai fare i conti con un indebitamento vita natural durante. Un patto col diavolo. Il venditore di tempo a credito. Tu decidi “liberamente” di dedicare l’esistenza a questi ospiti che avanzano tra tavolini da lettura e giornali infilati in asticelle di legno. In cambio una casa che per mantenerla ti servirà un secondo lavoro in nero, posto che tu ne abbia già uno alla luce del sole che ti soddisfi. La nostra realtà è completamente disintegrata. Nelle pietanze evitiamo il sale e mettiamo l’aceto, mentre il barista del museo d’arte ti passa il bicchiere d’acqua con il caffè, anche se non sei più a Napoli.
Così, pian piano, attraversando a passi lunghi il patio degli anni, si è radicato un sentimento di sconfitta in una generazione intera. Con quello, di incapacità. Persone sovrastate da affreschi e soffitti a cassettoni di legno decorato che attendono ancora di trovare una più degna collocazione sociale. Amici che hanno pagato e pagano lo scotto della superbia delle generazioni precedenti. Esiste “l’indolenza autoritaria” o è un ossimoro? Un immenso parquet di vecchi indolenti autoritari. Il venditore di tempo, il venditore di sogni, il venditore di storie. Le loro segretarie. Le mogli. I figli e i figliocci. Perché dovrebbero ascoltare le nostre, di storie?! Per principio? Per consuetudine? Perché sennò pare brutto? Non ne vedo la ragione. Il parco commerciale verrà su lo stesso, tombe o non tombe. Sbottoniamoci i primi bottoni della camicia e arrotoliamo le maniche. O finiremo la nostra esistenza davanti a un monitor. Non c’è altro da fare.
“Ho fatto tanto, non sono arrivato a niente”. Un’intera generazione tradita. Dovremmo avere più comprensione per i capricci. La radio funziona ancora.
Abbiamo creduto nei principi. Ci raccontarono che avevamo dei “diritti”. Che l’umanità poteva e anzi doveva credere saldamente nei “valori”, nei princìpi. Quasi fossero avamposti contro l’imbarbarimento. Le nostre elucubrazioni, i simboli, tutta una gran confusione. Non sarebbe rimasto che addormentarsi mentre qualcuno ti gratta la schiena, anche se con tanti capelli e le vene varicose. Baci e abbracci Capri. La vita di tutti i giorni ci avrebbe restituito un’altra storia: accesso orario ai reparti dei degenti. Chiedere alla caposala una “licenza” speciale, sì, insomma, un favore. Lo stesso che hai chiesto anche al tuo capufficio per essere lì. Scusi, posso esistere?! Beninteso, se otterrai questa concessione sarai immediatamente debitore. Debitore da una parte e dall’altra. Eh già! Perché dalle 11.45 alle 13.00 lavori e proprio non sai come fare per rispettare quell’orario per vedere tua madre, tua nonna o tua sorella che piangono di dolore in un letto d’ospedale.
Regole. Di un altro pianeta. Il pianeta dei senza diritto.
La vita ci mostrerà il cruciverba del giornale prima della sala da pranzo.
Non preoccupatevi: il giornale sarà gratuito.
E la sala da pranzo senza parcheggio libero.
Sempre.
In questa nostra vita rutilante, veloce, rapida, piena di impegni e di faccende da sbrigare, di carte da compilare e di scadenze da rispettare, di orologi da seguire e di appuntamenti da non mancare, c’è un tempo che andrebbe recuperato: il tempo della contemplazione.
Il tempo della contemplazione è anche quello dell’ozio, il tempo del nulla, il tempo del dolce far niente che, al contrario di quanto si possa pensare, è un tempo prezioso e pieno di senso.
In questo elenco vanno annoverati i momenti “rubati” della giornata in cui di dedica un po’ del proprio tempo a un animale, a una pianta, a perdersi nell’osservazione di un paesaggio.
Ecco, presumo che il senso della nostra esistenza sia tutto lì. Non nell’elenco interminabile delle opere e dei giorni, ma dell’affetto che siamo capaci di coltivare per un vecchio, un animale, una pianta, un’idea di quiete e serenità, che sono lontani mille miglia dalle corse di tutti i giorni.
I nostri dialoghi, nonna.
Cosa dici dei nostri dialoghi, tu che m’intendi?
A sentirli dall’esterno strappano il sorriso. Farebbero la fortuna di qualunque parolaio d’avanspettacolo.
Io che ti domando, tu che mi rispondi quello che ti va. Poi alla fine, ci capiamo lo stesso io e te, nonna.
– La vuoi la ricotta con il miele?
– La?
– La ricotta col miele.
– La torta con le mele?
– La ricotta con il miele!
– Mi piace la torta con le mele.
– Ok, vada per la torta con le mele.
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