La casa di riabilitazione

 

 

Nella casa di riabilitazione piazzano nonna su una carrozzina. Sì, la sedia a rotelle. Ma non lo fanno dal primo giorno. Se lo facessero da subito la sua psiche rischierebbe di recuperare in autostima i troppi punti persi con la caduta e l’intervento. No, macché! Così sarebbe una cosa normale, troppo lusso! La conseguente frattura e i giorni di stazionamento obbligato, in un letto d’ospedale, le hanno fatto perdere ineluttabilmente la capacità di movimento.

“Deve stare a letto finché non la visitano…”. Finché non la visitano. A parlarmi è un’infermiera, o una portantina, non lo capisco, non si qualifica, non so che ruolo abbia. Non ho ancora imparato a distinguere le competenze in base al camice, o al colore degli zoccoli di gomma che indossano. So solo che aggiunge: “deve stare a letto finché non la visitano, perché chi si prende la responsabilità di metterla in piedi o su una sedia a rotelle sono i dottori, mica noi, noi qui siamo solo infermieri”. Finché non la visiteranno, penso. E quando la visitano? Penso.

“Ah, sì?! E dove sono i dottori, posso parlarci?!”, le faccio.

“Non ci sono. Torni domani. Anzi no. Domani non è giorno di ricevimento. Tra tre giorni, la mattina, ma non prima delle 9.00”.

Devo aspettare tre giorni solo per capire come hanno intenzione di procedere, cosa fare, farle. Per questo nuovo incontro tra tre giorni – ovviamente – dovrò assentarmi di nuovo dal lavoro.

“Non si possono avere queste informazioni adesso, o in altro modo? Prima?! Che so, se facessi una telefonata?”.

“Per telefono non danno informazioni, c’è la privacy”.

“Ah, già, la privacy!”, pronuncio in automatico. Lo faccio senza pensare che questa risposta è oramai una nenia dietro cui si trincerano negazioni malcelate, conversazioni evasive di anime qualunquiste. Un modo di raccontare l’articolazione contemporanea di quel gesto simbolico che l’antico romano Ponzio dimostra lavandosi le mani dinanzi a una scelta che grida vendetta.
Ponzio lava Pilato, Roma, Vendetta.

Il tempo di un pensiero e quella donna è di spalle, in fondo al corridoio, già partita per vanificare altre preghiere, mentre la guardo allontanarsi ineluttabilmente, salvo poi ritrovarmi a pensare: “già, la privacy!”.

“Ma di chi?!”.

Nel frattempo mia nonna, che dice alzatemi alzatemi alzatemi, deve stare a letto in una corsia dove non c’è nessuno: vuoto. Anche qui: corsia deserta. Tutti i compagni di stanza sono nel “centro diurno”, per fare le terapie suppongo. Questo calvario del “parcheggio temporaneo” in corsia debbono averlo già passato, loro. Un parcheggio a quest’età, anche se solo di tre o quattro giorni, per di più dopo un intervento chirurgico e altri giorni di inattività non si sa perché, è foriero di conseguenze che te le porti appresso per il resto dei tuoi giorni, voglio dire dei suoi, e con i suoi dei tuoi. In questo caso i miei. Insomma.

Parcheggio androne corsia vuoto silenzio calvario giorni. Stress.

Allora dovremmo imparare a essere più “sanamente” egoisti. Un pizzico, si dice. Quel tanto che serve dicono. I lavori di fatica si possono fare con o senza guanti. Non indossarli è questione di indolenza. Indossarli, di sano egoismo. A volte non occorrono, è vero. Sano egoismo è indossare i guanti quando se ne potrebbe fare a meno, ma anche no. Avendo compreso che la sofferenza di mia nonna sarà di riflesso la mia, se fossi abbastanza egoista da scacciare l’indolenza dovrei fare in modo che tutto ciò non accadesse. Potrò dire di essere tornato a casa senza certezze?! A proposito del suo decorso ospedaliero intendo. Della sua terapia. Dei tempi previsti. Degli accorgimenti adottati, voglio dire. Che adotteranno per la sua riabilitazione.

Dunque, potrò dire di essere tornato a casa senza certezze?!

Il cimitero è chiuso. È ora di pranzo e io sono il custode.

Quelle complicanze evitate per un soffio in ospedale, quelle che non sono insorte e si sarebbero presto presentate se non fossimo intervenuti per tempo, potrebbero manifestarsi adesso, sì, a cose fatte. Magari a causa di una sciocca piaga da decubito, cui seguirà un’infezione, un collasso della pische e un arresto cardiocircolatorio, ci si gioca al lotto i numeri della vita e della morte: il danno è presto fatto. Così vanno le cose. Si sa. Poi arriverà qualcuno a raccontarmi che “si è trattato di vecchiaia”.

“Aveva un’età”. Ecco cosa diranno.

Invece penso che potrebbe trattarsi di lassismo, di quell’indolenza di cui sopra. Adesso penso anche questo. Come biasimarli, si tratta di gente talmente abituata ad occuparsi del dolore degli altri… Tutti i giorni pianti, urla, grida di dolore, preghiere, istanze da recepire, sguardi affranti da incrociare. Ci vuole stomaco. Si perdono i parametri di riferimento. I parametri emotivi. Le capacità empatiche. Ci si abitua. Si dimentica che quella famiglia che si ha davanti prova dolore per la prima volta.

Da cosa lo deduco. Dai modi di fare che hanno taluni, qui. Se facessero gli impiegati alle poste è presumibile avrebbero lo stesso approccio. Ma non siamo alle poste. Sarà un’autodifesa, o una prassi condivisa, ma non mi piace.

Il primo giorno che sono arrivato, seguendo la barella di mia nonna straziata dal dolore fisico e tenendo sottobraccio mia madre che si porta allegramente a spasso un Parkinson che per fortuna spesso è dimentica di avere, un’infermierina sollecita mi ha intercettato a metà corsia intrattenendomi per minuti preziosi con l’unico intento di spiegarmi che sarebbe stato “meglio far lavare la biancheria alla casa di cura”, ovviamente a pagamento, “piuttosto che portarla a lavare a casa”, e che non c’era da preoccuparsi perché loro, in lavanderia, giù, giù in lavanderia, avrebbero provveduto a “stampigliare le cifre della paziente sugli indumenti intimi”. A pagamento, s’intende.

Giuro, ho capito che mi parlava con tanta pena di calzini, mutande e canottiere solo dopo cinque ininterrotti minuti di chiacchiere prolisse, propinate a me e a mia madre, bruscamente intercettati in mezzo a un corridoio, mentre mia nonna, oramai in fondo alla corsia e già dentro una delle stanze, piangeva di dolore e mi chiedeva di essere lì, vicino. Mutande calzini canottiere bianco lavare iniziali soldi tuttapposto. Urla, lamenti, gemiti soffocati e pianti dimessi.

Ophelia, mia amata Ophelia, che nell’indolenza delle acque placide affondi tra mille fiori pensieri sparsi lo sguardo nel cielo che sulle creste d’orlo di un fiume cucito tra le piante si specchia affonda affondi.

Risparmio a queste poche righe di sfrugugliamento nelle immagini della memoria, di quella giornata di trasferimento dall’ospedale alla casa di cura, quale fu, se ci fu, la mia risposta alla gentile cameriera, pardon, infermiera. Una risposta a tono, suggerita all’indirizzo degli occhi di quell’impiegata solerte della lavanderia. No, della clinica. Fai l’infermiera o la lavacalzini?, penso. La mia bocca pronunciò cose per conto suo. Parole all’indirizzo di quegli occhi solerti così solleciti di spiegazioni da lavasecco. Occhi che restarono attoniti, senza parole riflesse. Eppure prego di non pensare male: furono parole di cortesia. Lemmi cardesiani che nonostante i modi civili non nascondevano tutto il disagio e il disprezzo che può provare un familiare congiunto di un paziente nel delicato momento del suo ricovero, intrattenuto al suono di cappelli fonetici come “non vi preoccupate”, espressi dagli impiegati in camice bianco che, piuttosto che far riferimento alla salute del caro, ti intrattengono sulla pulizia delle sue mutande. Camerieri d’albergo che vanno in bianco.

E allora, da qui in poi, seguirà quel giorno che la trovai senza dentiera, perché “nessuno aveva pensato di mettergliela”.

Nessuno.

Pensato.

 

 

– Quando non c’erano le strisce blu, parcheggiavi senza lo stress di cercare tagliandi, strisce bianche, monete da 1€, da 2€, centesimi e scontrini.

– Quando si entrava nei centri storici delle grandi città senza bisogno del permesso e chi arrivava da fuori poteva ammirarne le bellezze.

– Quando il denaro era di carta e non dovevi fare i conti con le monetine.

– Quando al posto di 10 lire ti davano come resto una gomma da masticare.

– Quando il gestore telefonico, della luce e del gas, era uno e non dovevi combattere con le offerte truffa di questo o quello.

– Quando nel raggio di 30 km c’era un ospedale.

– Quando le strade con molte buche venivano asfaltate a nuovo.

– Quando le targhe delle auto ti raccontavano la provincia e imparavi la geografia d’Italia sulle strade.

– Quando le strisce erano bianche al centro e gialle ai lati, così da capire anche nella nebbia più fitta da che parte stessi camminando.

– Quando d’inverno mangiavi cose invernali e d’estate cose estive.

– Quando i negozi erano piccoli ma tanti e con le loro luci rallegravano la vita dei vicoli e delle piazze.

– Quando i giorni di festa erano annunciati dall’arrivo delle giostre e i fuochi artificiali ne segnavano la conclusione.

 

Siamo sicuri che l’inverso di quanto descritto significhi progresso?!

Quando tutto questo era, così come è vero che è stato, il mondo non era poi peggio di adesso.

No, non lo era.

“Il sorriso di Emilia”, di Federico Caramadre Ronconi; Hermes Edizioni
www.ilsorrisodiemilia.it

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