Cosa segue una disavventura così esplicita se non un’altra disavventura?! Già!

Ricordo il suono della canzone che mia nonna cantava tutte le sere, prima di coricarsi.

 

“Sono andati, fingevo di dormire,

perché sola con te voglio restare

tante cose lo sai ti devo dire

non una sola grande come il mare

come il mare, profondo ed infinito,

tu sei il mio amore e tutta la mia vita”.

 

Mi gira in testa.

Qualche fervente devoto della retorica cattolica potrà portare al presidio della ragione, quella ragione che alberga nella mente degli uomini che credono nei principi di eticità, uguaglianza e giustizia, che non ci è dato sapere quel che ci arriverà, che questa è la vita, che bisogna accettare con rassegnazione quello che a torto o a ragione vedremo essere il nostro destino. Anche quando questo si mostrasse infausto e doloroso.

 

Non ho riserve, né barriere, da edificare dinanzi all’umana consolazione. Il coraggio di affrontare la morte occorre a tutti. Semmai si manifesta in forme diverse e tutti ne abbiamo bisogno. Ma non posso accettare che un atteggiamento caritatevole si trasformi in rassegnazione. La comprensione degli errori umani non si deve anteporre alla convinzione di garantire un principio: tutti abbiamo il diritto d’essere felici.

Sì! È quello che si può riassumere brevemente in un concetto: il diritto di essere felici.

In un ospedale è il diritto di essere considerati come persone e non come numeri o sigle di reparto. È il diritto di essere curati con le buone attenzioni e le buone parole prima ancora che con le procedure corrette dettate dalla norma. Se non c’è umanità dietro un’azione fatta da uomini, anche quando eseguono protocolli consolidati, allora non vi sarà buona umanità neppure nei risultati che quelle procedure potranno assicurare.

La felicità è il modo in cui la vita ha ancora il diritto di stare al mondo. A qualunque età.

Inutile temporeggiare. Sciocco aspettare che il tempo faccia inevitabilmente il suo corso. Questa panchina di acciaio lucido non profuma. Puzza di alcol. Sterilizzata, forse. Sotto c’è comunque polvere. Rattoppata. Come il pavimento. Dovrei lasciar fare, sperando che l’ineluttabile non si avvicini: è come guardare il burrone dal ciglio, con un passo già troppo avanti, senza retrocedere.

Ma anche no.

 

 

 

“Che Dio ti benedica!”.

“Come?!”, rispondo.

Mia nonna è finalmente nel suo letto, a dire il vero il letto non è proprio il “suo suo”, per intenderci quello matrimoniale di una vita intera, sì, insomma, non è quello di sempre, quello cui era abituata. È un letto ortopedico, di quelli in alluminio, con le sbarre ai lati e le manovelle ai piedi. Quelli concepiti per impedire al paziente di cadere inavvertitamente, che consentono di cambiare l’inclinazione dello schienale. È un letto per allettati.

Siamo a gennaio, dall’incidente sono trascorsi circa tre mesi.

Tre mesi da quella panchina rattoppata. Da quel pavimento consumato dal peso e dal dolore degli altri.

 

 

“Hai fatto un miracolo!”.

“Ho fatto un miracolo…”.

“Sì, hai fatto un miracolo, un miracolo! Sto bene, sono a casa mia, è andato tutto bene, hai fatto un miracolo amore mio! Se non c’eri tu…”, mi dice con un’enorme energia ritrovata e una lucidità che rincuora e spiazza, continuando a impartire benedizioni a destra e a manca quasi fosse un prete.

 

“Nonna, sono contento che tu stia bene. Anche questa è passata, l’hai superata brillantemente! L’operazione è andata bene, oggi ti sei alzata in piedi e se ci metti un po’ di buona volontà puoi tornare addirittura a fare qualche passo. Sono contento”.

 

“Io sono contenta! Dio ti benedica!”, mi dice da sdraiata, con una voce squillante che se fossimo in un condominio da basso la sentirebbero pure al quinto piano.

 

“Va bene, adesso riposati. Dormi. Oggi è stata una bella giornata. Domani, mi raccomando, farai la ginnastica con la fisioterapista e vedrai che presto riuscirai a muoverti anche da sola. Buonanotte”.

“Buonanotte, amore mio”.

 

Una carezza su una guancia, un pizzicotto sull’altra, una piccola sistemazione all’orlo della coperta infilata di traverso tra le sbarre ed è tempo di spegnere la luce.

 

Questa è la fine.

Ecco, adesso so che le cose sono andate così. Ho avuto ragione. Ragione di combattere contro i meccanicismi di un sistema che, invece di salvare mia nonna, sono certo, l’avrebbe uccisa.

Ma io volevo raccontare una storia diversa.

 

Adesso, dopo aver vissuto un lungo periodo senza allegria, con lo sguardo perso, mentre affondavo nelle mie vertigini, posso dire d’essere contento. Ascoltare quelle parole, le sue benedizioni, a distanza di mesi, è la ricompensa più grande. Cose così ti regalano l’intima consapevolezza di aver fatto quello che c’era da fare. Sì, perché in seguito all’incidente, per seguire passo passo tutta la vicenda, per trovare il tempo da dedicare alle giuste decisioni da prendere, ho dovuto rinunciare al mio, di tempo, al lavoro, al resto. Ho dovuto negare la mia presenza, negarla a chi mi avrebbe voluto costantemente da un’altra parte. Se avessi dato corso a quelle richieste mia nonna sarebbe morta.

FINE

“Il sorriso di Emilia”, di Federico Caramadre Ronconi; Hermes Edizioni
www.ilsorrisodiemilia.it

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