La sbarra biancorossa all’ingresso, manovrata da un metronotte dentro un gabbiotto, chiarisce subito che si entra a piedi. L’auto fuori, in un parcheggio di fortuna, dove si può, sul ciglio della strada.
In fondo a un viottolo di pietra stampata a mattoni, l’ingresso fatiscente del pronto soccorso, odoroso di gasolio e luminoso di neon infreddoliti da brividi di luce intermittente.
Dentro un androne che sembra un garage, il letto con la donna che cerco, sola, con nessuno intorno e una gamba spezzata dall’età.
Entro diretto seguendo il filo tenue e stridulo del lamento che riconosco e la trovo lì, in balìa di se stessa, che tenta di muoversi, anche se non dovrebbe, non si sa ancora bene cosa sia successo, al suo stanco corpo in affido, se ci siano lussazioni, fratture o meno. Nessuno mi ferma, nessuno mi chiede, nessuno si occupa di lei, lì, scaricata come un collo da trasporto dalla coppia del 118 che è già ripartita per altri soccorsi. Gemiti, lamenti, urla senza virgole, per un pensiero che va diritto su ossa franate sotto il peso degli anni.
Le fa male la gamba, le metto una mano dietro la schiena, per sorreggerla, poi la testa, e con l’altra mano le immobilizzo gli arti inferiori, ogni minimo movimento un grido di dolore, ogni nuova posizione un possibile peggioramento se, come è probabile, si tratta di fratture.
Poi tutto il resto: le radiografie, l’attesa obbligata in un andito lugubre, la sentenza, le firme per l’assunzione di responsabilità, “non c’è posto”, “iniziamo a chiamare altri ospedali”, non mi dicono come sta che cos’ha, no, mi dicono che per legge devo firmare se rifiuto il trasferimento, già, la burocrazia prima di tutto, “l’assunzione di responsabilità”, prima delle spiegazioni, prima del cuore, prima dei sentimenti, prima degli affetti, già, “iniziamo a chiamare altri ospedali, qualcuno risponderà, oppure, se la vuole lasciare qui, ginecologia”.
Sì, perché in questo ospedale, già dagli anni ’50, nascevano bambini. Tanti. E tanti ne nascono ancora, in questo comprensorio, ma il reparto di ostetricia è stato chiuso: li chiamano tagli di bilancio. Il prossimo ospedale possibile è a più di 40 km di impossibili strade di provincia.
E allora succede che nel reparto di ginecologia c’è tutto il posto che si vuole, perché non ci sono né puerpere né gestanti, qui: per ritrovarle bisognerà arrivare in città, nella confusione della capitale. Così ti arriva netta una sensazione, insieme a una domanda: non è che invece di andare avanti, andiamo indietro?! Un paese che non guarda al futuro, che vede peggiorare situazioni di utili di fatto, come un presidio ospedaliero, portandole sulla strada di una lenta agonia, che prelude alla chiusura, in nome dell’economia, come se un servizio pubblico debba essere sottoposto alle leggi di mercato, è un paese in declino.
Se un ospedale è un servizio alla collettività, deve essere antieconomico, altrimenti non è più un servizio, ma un prodotto da vendere, come qualsiasi altro, con la differenza che si mercanteggia con il dolore delle persone.
Negli anni ’50, qui, nascevano bambini.

“Il sorriso di Emilia”, di Federico Caramadre Ronconi; Hermes Edizioni
www.ilsorrisodiemilia.it

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